Che cos'è l'endecasillabo
Che cos'è l'endecasillabo

Che cos’è l’endecasillabo

L’endecasillabo è il verso principe della poesia italiana. O almeno lo era. Si tratta di un verso di undici sillabe (etimologicamente, significa proprio «undici sillabe»). L’endecasillabo è il verso maggiore, il più ritmicamente vario e il più usato nella poesia italiana, corrispondente al decasillabo francese e provenzale; ma, diversamente da questo, con cesura mobile. Al di là della bellezza poetica, parliamo di questioni molto tecniche, che forse possono annoiare. Ma se volete saperne di più, non si può fare altrimenti.

Le origini e la struttura di questo verso

Sull’origine dell’endecasillabo italiano sono state avanzate diverse teorie senza però poter mai giungere a una conclusione soddisfacente. Comunque, quali siano state la sua origine e la sua forma primitiva, nella forma assunta nella poesia classica l’endecasillabo risulta formato dalla fusione o di un quinario e di un settenario o di un settenario e di un quinario. Nel primo caso (quinario + settenario) parliamo di endecasillabo a minore, con accenti sulla quarta e decima sillaba: Mi ritrovai per una selva oscura (Dante, Inferno, I, 2). Se è un settenario + quinario, siamo dinanzi a un endecasillabo a maiore, con accenti sulla sesta e decima sillaba: Nel mezzo del cammin di nostra vita (Dante, Inferno, 1, 1).

Gli schemi

Nel primo emistichio dei due schemi base, il quinario e il settenario sono stati considerati nella loro forma tronca, ma essi sono molto più spesso piani, e allora avviene la fusione della sillaba atona finale del primo emistichio con la sillaba iniziale del secondo:

  • Biondo era e bello e di gentile aspetto (Dante, Purgatorio, III, 107);
  • S’al principio risponde il fine e ‘l mezzo (Petrarca, Rime, 79, 1)

dove avremo la cesura dopo la quinta sillaba dell’endecasillabo a minore, e dopo la settima in quello a maiore.

Ora, poiché il quinario e il settenario possono assumere diversi schemi ritmici, ne risulta che possiamo avere per l’endecasillabo tanti schemi quante sono le combinazioni che si possono avere con i due versicoli che lo compongono nelle due forme (48 schemi, 45 dei quali presenti in Dante); schemi che, per la natura dell’endecasillabo di verso a cesura mobile, possono essere ancora notevolmente aumentati, a seconda delle sedi in cui si può far cadere la cesura.

Gli schemi ritmici più usati sono però tre: uno per l’endecasillabo a maiore, con accenti sulla sesta e sulla decima sillaba:

Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono… (Leopardi)

e due per l’endecasillabo a minore, uno con accenti sulla quarta, sull’ottava e sulla decima sillaba:

O voi che siete, in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca… (Dante, Paradiso , 11, 1-3)

e l’altro con accenti sulla quarta, sulla settima e sulla decima sillaba:

Amor comincia con canti e con suoni
e poi finisce con lacrime al cuore (Pascoli).

La questione degli accenti

Da questa preferenza è quindi derivata l’errata definizione dei trattatisti di metrica che «l’endecasillabo è un verso che ha l’ultimo accento ritmico sulla decima, e deve averne o un altro sulla sesta, o due altri sulla quarta e ottava o sulla quarta e settima», perché, in base alle combinazioni possibili di cui abbiamo parlato, vi possono essere altre soluzioni ritmiche in cui prendono il sopravvento accenti considerati normalmente secondari, anche se in ultima analisi le tre indicate sono dominanti.

Si deve inoltre osservare, per ciò che riguarda l’accento, che, teoricamente, nell’endecasillabo a minore non è mai possibile l’accento sulla terza sillaba, e in quello a maiore sulla quinta, in quanto entrambe precedono un accento principale, e lo stesso dicasi della nona sillaba; ciononostante non mancano eccezioni alla regola, come in questi due esempi:

  • Che furo all’osso, come d’un can, forti (Dante, Inferno, XXXIII, 78)
  • Ch’a l’aura il vago e biondo capel chiuda (Petrarca, Rime, 52, 6).

Vari tipi di endecasillabo

Endecasillabo sciolto

Sebbene non fosse sconosciuto ai primi tempi della nostra letteratura, trovandosi un esempio in un poemetto del XIII secolo, il Mare amoroso, la vera nascita dell’endecasillabo sciolto si deve datare al XVI secolo, per opera di poeti classicisti quali il Trissino, il Rucellai, l’Alamanni.

Dopo la brillante prova fatta con Annibal Caro che lo usò nella sua traduzione dell’Eneide, lo sciolto divenne il metro preferito dai traduttori, specialmente in opere di ampio respiro. Allo sciolto ricorsero infatti Alessandro Marchetti per la traduzione del De rerum natura di Lucrezio, il Cesarotti per la sua traduzione dell’Iliade, il Monti per la sua celebre traduzione dell’Iliade, Ippolito Pindemonte per quella dell’Odissea e Andrea Maffei per quella del Paradiso perduto di Milton.

Oltre che nelle traduzioni, l’endecasillabo sciolto fu usato anche in componimenti narrativi di minor estensione (come nei Poemetti dal Chiabrera, nell’Etruria vendicata dall’Alfieri, nel Giorno dal Parini, nella Feroniade e nel Prometeo dal Monti, nelle Grazie dal Foscolo, e nell’Urania dal Manzoni), nella poesia didascalica (nelle Api dal Rucellai, nella Coltivazione dall’Alamanni, nella Riseide dallo Spolverini, nell’Invito a Lesbia Cidonia dal Mascheroni e nella Pastorizia dall’Arici), nei sermoni (Chiabrera, Gasparo Gozzi, Monti), nelle epistole (Carlo Frugoni, Francesco Algarotti, Monti e Foscolo), nell’egloga (Baldi e Alamanni) e nell’idillio (Leopardi).

Anche nella lirica, a partire dal XVIII secolo, specialmente in quei componimenti che avevano in sé qualcosa del narrativo o del didascalico. In questo campo abbiamo uno stupendo esempio nei Sepolcri del Foscolo. Nella poesia drammatica, dopo l’esempio della Sofonisba del Trissino, l’endecasillabo imperò (qualche volta anche mescolato a settenari) dal XVI al XIX sec., specie nella tragedia (Rucellai, Pietro Aretino, Alfieri, Monti, Foscolo, Manzoni, Silvio Pellico).

Endecasillabo sciolto sdrucciolo

Nella commedia invece fu preferito, alle origini, l’endecasillabo sciolto sdrucciolo che meglio sembrava rendere nelle sillabe finali il suono del trimetro giambico acatalettico dei comici latini, ma per la monotonia che il verso ingenerava ebbe poca fortuna.

Altre tipologie di questo verso

Alcaico

L’accento cade sulla seconda, quarta, sesta e nona sillaba.

Catulliano

È stato introdotto nella poesia italiana da Paolo Rolli (1687-1785). È composto da due quinari, il primo dei quali sdrucciolo, come i seguenti del Carducci:

Quanti chilometri de l’infinito
puoi tu percorrere con passo ardito.

Il nome del verso deriva dal fatto che esso come il falecio (vedi sotto), metro caro a Catullo, letto secondo l’accento grammaticale.

Dattilico

È detto così per il particolare ritmo che lo distingue dagli altri schemi ritmici dell’endecasillabo. Si tratta di un endecasillabo a minore che ha gli accenti fissi sulla prima, sulla quarta, sulla settima e sulla decima sillaba. Un esempio:

Cerbero, fiera crudele e diversa (Dante, Inferno, VI, 13).

Falecio

Verso con accenti sulla prima, terza, sesta, ottava e decima sillaba.

Endecasillabo incatenato

Endecasillabo con rimalmezzo usato in serie continua, ogni verso della quale rima con il primo emistichio del verso che segue.

È il metro della poesia popolare o popolareggiante, fu proprio della frottola, detto perciò anche endecasillabo frottolato o metro frottolato. Fu usato come metro drammatico in alcune sacre rappresentazioni (nell’anonima Abram e Agar e nell’Invenzione della Croce di Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici), nelle farse cavaiole e negli gliommeri. Alla fine del Quattrocento e al principio del Cinquecento fu usato da alcuni poeti meridionali, come Pier Antonio Caracciolo, Giosuè Capasso, Francesco Galeota e Iacopo Sannazzaro, nelle loro farse cortigiane. II Sannazzaro introdusse questo tipo di endecasillabo, ma come metro lirico, in alcune egloghe dell’Arcadia, inserendolo fra le terzine. Si vedano, ad esempio, questi versi tratti dal Magico del Caracciolo:

Come aquila a cui cede — ogni alto volo
da quello antiquo stolo — mio romano
il quale io ebbi in mano — et fui censore
tenendo il mio valore – l’alto seggio…

Endecasillabo ipermetrico

Endecasillabo nel quale la finale atona del primo emistichio non si è fusa con la prima sillaba del secondo emistichio. Si genera così, apparentemente, un verso di dodici sillabe. Apparentemente perché nella lettura la sillaba atona finale del primo emistichio si elide. Un esempio è il seguente verso del Petrarca (Rime, 31, 1):

Quest’anima gentile che si diparte

dove la e di gentile cade nella lettura. È questo un fenomeno presente soprattutto nei poeti più antichi.

Saffico

Si intende un’ode composta di strofe di tre endecasillabi più un quinario.

Via | Dizionario della letteratura italiana, a cura di Ettore Bonora

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