John Steinbeck

John Steinbeck, il migliore scrittore della generazione perduta

La stentorea voce di critica sociale di John Steinbeck (1902-1968) era fortissima anche quando si trattava di raccontare l’imperscrutabilità dell’animo umano.

Originario di una cittadina rurale della California le cui atmosfere e la cui gente riecheggiano più o meno esplicitamente in tutte le sue opere, l’autore dovette passare attraverso una non brillante – e incompiuta – carriera universitaria e gli impieghi più umili prima di avere successo.

Tre romanzi di John Steinbeck

Il suo esordio letterario risale al 1929 con il primo di una trilogia di romanzi storici che ebbero poca fortuna di critica e di pubblico. La fama arrivò nel 1935 grazie alla pubblicazione di Tortilla Flat, storia di un’alleanza tra sette paisanos – gli ultimi californiani discendenti dagli spagnoli, una vita votata agli espedienti e dedita al cibo e alle sbronze – e cinque cani, portata avanti con toni quasi epici, fino al tragico epilogo. Il titolo è tratto da un quartiere di Monterey dove effettivamente vive questa popolazione.

Da questo lavoro in poi – i cui diritti saranno acquistati anche da Hollywood per un famoso film – Steinbeck collezionerà un successo dietro l’altro, fino all’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura da parte dell’Accademia di Svezia nel 1962 con la seguente motivazione:

Per le sue scritture realistiche e immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale acuta.

Di John Steinbeck libri da leggere sono questi, a nostro avviso.

Uomini e topi, quando i progetti non si realizzano

È tra le pagine di questo romanzo breve che si capisce quanto veramente John Steinbeck facesse sul serio e la sua potenza della sua scrittura.

Uscito nel 1937, racconta la storia di una coppia di amici, entrambi braccianti agricoli, ben caratterizzati: George e Lennie.

Mingherlino ma dotato di un’acuta intelligenza il primo, omone dalla forza spesso incontrollabile e un evidente ritardo mentale il secondo, sopportano giorno dopo giorno il duro lavoro nei campi solo perché assieme alle piante coltivano un sogno che è quello di tutta la loro categoria sociale: avere un giorno un pezzo di terra tutto loro.

Arrivano a lavorare in un ranch dove fanno la conoscenza di una serie di personaggi, compresa la moglie sensuale e un po’ puttana del figlio del padrone che arriverà a fare delle avances perfino al povero Lennie che, per errore, finisce per ucciderla. In un finale particolarmente drammatico, George decide, quindi, di sparare all’amico per salvarlo dal linciaggio della comunità.

Il titolo dell’opera, infine, tratto dal verso di un poeta settecentesco, indica che sia i piani architettati dagli uomini che quelli dei topi, spesso finiscono male, causando null’altro che dolore e sofferenza a chi li ha ideati.

I giorni dell’ira di John Steinbeck: Furore

Ogni autore ha il suo capolavoro e Steinbeck non fa eccezione. Il suo – scritto in soli cinque mesi – viene dato alle stampe nel 1939 con un titolo che nella sua versione originale (The grapes of wrath cioè I grappoli d’ira o I grappoli d’odio, ndr) richiama addirittura l’Apocalisse.

Nato da una serie di articoli pubblicati dal San Francisco News sui migranti interni degli Usa che da Stati come l’Oklahoma si trasferivano in California alla ricerca di una vita migliore per finire soltanto a ingrossare le file dei nuovi poveri, divenne presto il progetto di un romanzo di grandi dimensioni.

La vicenda narra l’epopea della famiglia Joad, partita con tre generazioni al seguito dall’Oklahoma, appunto, in direzione California attraverso il Texas, il New Mexico e l’Arizona seguendo quell’interminabile serpente d’asfalto che è la Route 66, ribattezzata strada per la libertà.

Durante il viaggio dovranno affrontare diverse vicissitudini, spesso tragiche, come l’arresto di un membro della famiglia per l’uccisione di un poliziotto, un’inondazione e perfino il parto di un bimbo morto, ma tutto questo non basterà: ciò che troveranno a destinazione non è la terra promessa che avevano sognato, ma un luogo di nuove miserie.

La forte denuncia contenuta nel romanzo spaccherà l’opinione pubblica degli Usa tra sostenitori e detrattori e causerà anche alcune censure all’estero come da noi in Italia, negli anni in cui il Fascismo esaltava la vita contadina come condizione idilliaca dell’esistenza.

La Valle dell’Eden, dove tutti sono buoni e cattivi

Il pubblico più distratto conoscerà quest’opera per il film con James Dean che ne trarrà Elia Kazan. Ma il romanzo, quello del riscatto di Steinbeck dopo la Seconda Guerra Mondiale e qualche anno di insuccessi, fu pubblicato nel 1952.

Narra la storia di due famiglie i cui destini s’intrecciano: i Trask e gli Hamilton sul consueto sfondo della Valle di Salinas.

Non privo di elementi autobiografici, secondo alcuni testimoni molto vicini all’autore, John Steinbeck considerava questo lavoro il suo testamento letterario e spirituale: come se tutto quello che aveva scritto fino ad allora, in realtà non tendesse che a queste pagine.

Oltre al solito tema sociale, qui lo scrittore approfondisce anche quello dell’ineffabilità dell’animo umano, sovvertendo le categorie di buono e cattivo che per lui non esistono. Nessuno, infatti, appare nel romanzo totalmente in un modo, perché nell’animo umano convivono inspiegabilmente afflati positivi e tendenze alla depravazione, carità e autodistruzione. Nell’opera si ravvisa anche un parallelismo con la Genesi biblica.

L’uomo, in definitiva, è per John Steinbeck un animale istintivo ed enigmatico che si muove all’interno di una natura placida e immutabile, per lo più indifferente ai suoi travagli.

Foto | WikiCommons

Roberta Barbi

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