Peccato che la scuola non abbia tempo di farci conoscere tutte le più variegate voci della nostra feconda letteratura italiana. Tra i banchi, stancamente, leggiamo Leopardi, i Crepuscolari, D’Annunzio quando il programma didattico ce lo consente e pochi altri. Così ci sono poeti e potesse che restano nell’ombra, e magari capita che se fai un lavoro lontano dalla scrittura e dall’editoria, neanche li scopri mai.
È il caso di Vittoria Aganoor Pompilj, poetessa veneta con origini armene di cui andava orgogliosa, eccetto il rammarico di non aver mai imparato quell’antica lingua. Anche lei aveva letto Leopardi, i Crepuscolari e D’Annunzio, ma come suoi contemporanei o quasi. Ma non si era fermata lì: aveva cercato di seguirne le orme e aveva iniziato a scrivere.
La poesia «di testa» di Vittoria Aganoor Pompilj
Di Vittoria Aganoor Pompilj resta soprattutto l’immenso carteggio che ebbe con i padri mechitaristi dell’isola di San Lazzaro a Venezia e con l’amico poeta Domenico Gnoli. Sono lettere che ci raccontano tanto del suo modo di vivere, della dicotomia tra l’essere donna di buona famiglia inserita in società e il voler essere anche poetessa, perché no, ribelle e struggente.
Tutti coloro che l’hanno conosciuta la descrivono come una perfetta signora, impeccabile in pubblico, opportunamente impegnata in questa o quella opera di beneficenza sociale. Anche una parte della sua poesia è così: lei stessa la definisce «di testa» e non «di cuore», versi che parlano di sentimenti e sofferenze di cui in qualche modo «si era fatta una ragione» inculcando a se stessa e al prossimo le regole della gioia, della pace e dell’amore reciproco.
Una vita segnata dal lutto
In realtà la sua poesia nasce là dove non è riuscita, mai, a «farsi una ragione» del dolore che le capitava e che la vita non le risparmiò: prima la morte prematura del padre, poi quella, inconsolabile di una madre che, lei stessa se ne era accorta, «s’inoltrava a grandi passi nell’ultima vecchiaia».
Questi lutti la sconvolsero e la spinsero a scrivere della morte, ma in modo nuovo, come mai nessuna donna aveva fatto prima. «È la tua sorte la sorte dei fiori», quella che fa battere i piedi, fa urlare e fa scoppiare in lacrime all’improvviso. Ma poi anche dall’angoscia estrema riusciva a prendere le distanze, perché tutti noi «passiamo subito» e «passa anche il nostro dolore».
La scrittura spontanea e fresca di Vittoria Aganoor Pompilj
Non è poesia delle grandi cose, quella di Vittoria Aganoor Pompilj, ma è comunque grande ed eloquente, altrimenti della sua scrittura «spontanea e fresca» Benedetto Croce non avrebbe parlato come di «letteratura della nuova Italia».
Donna di fine cultura, istruita dai classici greci e latini, per tutta la vita non amò che il bello e il bene e da questi fu poi ricambiata: nel 1901 sposò l’uomo politico Guido Pompilj, che quando lei prematuramente morì, neppure dieci anni dopo, la seguì in poche ore preferendo il suicidio a una vita di solitudine.
Della produzione giovanile della Aganoor resta poco, ma è quel poco pieno di vigoria adolescenziale che non si può ignorare. «Orgoglio mio, dunque a sopir non vali questo che il cor tormenta pensier, cui serva io torno?». Oppure sono vagheggiamenti infantili rivolti al cielo, popolato, nella fantasia di bambina, da una luna argentea piena di uccelli, e di stelle. «Io con le stelle parlo, parlano a me le stelle», scrive.
La Leggenda Eterna
Per molti anni visse pubblicando qua e là nelle riviste letterarie senza passare inosservata.
Solo all’età di quarantacinque anni si decise a pubblicare Leggenda Eterna, una raccolta dei suoi migliori scritti, comprese rime sparse, in cui emergeva come le due passioni che ne alimentassero la vita e l’opera fossero amore e dolore.
Non sono forse le passioni che su questa Terra muovono ognuno di noi?
Foto | elaborazione grafica di Eugenia Paffile a partire da una foto di Vittoria Aganoor Pompilj
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