
L’ultima beatitudine, di Alberto Maggi


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«L’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita» è un saggio di Alberto Maggi che indaga un argomento tabù dei nostri giorni: la morte.
Alberto Maggi, L’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita
Di Alberto Maggi, teologo dell’Ordine dei Servi di Maria, avevo apprezzato a suo tempo Versetti pericolosi. Per anni ho consigliato i suoi libri perché in grado di ricondurre al messaggio autentico del Vangelo: il rapporto con Dio non è basato su un do ut des e tantomeno è velatamente ricattatorio. Non otterremo l’amore del Padre se, e solo se, facciamo ciò che lui ci ordina. Il suo amore pre-esiste ed è senza condizioni.
Questo concetto è alla base delle riflessioni del teologo anche quando affronta un tabù classico dei nostri tempi: la morte. Nel 2013 in Chi non muore si rivede. Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita, edito da Garzanti, aveva raccontato il malore che lo aveva colpito e che portato vicinissimo al morire. «La mattina del 9 aprile 2012, cinque anni fa, un’ambulanza mi portava a sirene spiegate verso l’ospedale, dove sarei rimasto per quasi tre mesi, combattendo tra la vita e la morte, sottoposto a diversi pesanti interventi chirurgici».
In L’ultima beatitudine, pubblicato sempre con Garzanti, Maggi riprende il saggio teologico che aveva cominciato a comporre prima del ricovero e affronta il tema della morte (e necessariamente della vita) corroborato dalla sua recente esperienza.
L’ultima beatitudine
Al lettore viene presentato, nelle prime pagine, un quadro generale sul senso che la morte e la vecchiaia hanno avuto nelle varie civiltà e sulla progressiva disumanizzazione che si è imposta negli anni che stiamo vivendo. Maggi analizza poi le dinamiche che hanno portato gli uomini a mettere in relazione l’evento morte con una presunta volontà divina di punire l’uomo, creatura imperfetta, impudica e presuntuosa. Le considerazioni dell’autore, a riguardo sono come sempre chiare e a tratti lapidarie:
«Forse la religione dovrebbe chiedere scusa alla morte, per averla considerata un castigo divino, anziché riconoscerla come espressione della creazione, come la nascita. La normale conclusione dell’esistenza biologica dell’individuo è stata per troppo tempo coperta da un sudario funereo che non ha permesso di scoprire che nella morte c’è vita, che non è un castigo ma un dono, che non è tenebra ma bagliore di luce, non una fine ma quel che permette un nuovo inizio».
Maggi distingue sempre molto nettamente tra la fede personale, il messaggio dei vangeli e le scelte e le interpretazioni di una religione che si colloca nella storia e spesso si edifica sulle insicurezze e, diciamolo pure, sugli interessi di chi invece di accompagnare, comanda il gregge (spero non serva specificare che, qui, l’accezione di gregge è assolutamente positiva).
Di capitolo in capitolo, L’ultima beatitudine sviscera i Vangeli e il Nuovo Testamento, fa le pulci al Catechismo. Cerca insomma di traghettare il lettore fuori dalle solite dinamiche in cui viviamo la fede, incentrata spesso sulla paura, sulla punizione, su un mondo altro separato dal mondo dei viventi:
«Chi ha lo sguardo sempre fisso verso il cielo rischia di non vedere il Dio che ne è disceso e sta con i suoi».
Riflessioni conclusive
Ora, io leggo questo libro non certo da teologa. Non possiedo competenze specifiche, ma devo ammettere che Maggi ha la rara capacità di riportare il credente a una visione di creazione, di amore e di positività. Il suo però è un dialogo che include anche chi si colloca al di fuori della Chiesa, perché permette di comprendere l’origine di alcuni passi falsi ed errate interpretazioni, per poi svelare il nocciolo del credo cristiano/cattolico.
Credo che il dono più bello che il libro di Maggi sia in grado di offrirci risieda nella capacità di risolvere la scissione tra morte e vita, per riportare l’essere umano in una dimensione in cui entrambe sono legate, in cui il cammino è sempre verso l’aggiunta di un valore e non verso la sottrazione del nostro quotidiano.