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Addio a Derek Walcott, poeta dall’anima divisa in due

Se n’è andato oggi un altro grande figlio della cultura e del sole dei Caraibi: Derek Walcott. Aveva 87 anni aveva fatto delle schizofrenie della sua vita la propria forza: dicotomia di lingua in cui scrisse (la maggior parte delle sue opere sono in inglese, ma in alcuni lavori minori ha usato il localissimo patois creolo), dicotomia di radici (sempre diviso fra le isole di Santa Lucia dove nacque, Giamaica dove insegnò, Trinidad dove si trasferì, e la cosmopolita New York che lo consegnò alla celebrità), dicotomia tra terra e mare, come sempre capita a chi nasce tra le onde dell’oceano, che era sempre lì a fare da sfondo alle sue poesie, palcoscenico naturale e motore di ogni sua ispirazione.

“Ho dell’inglese, del negro e dell’olandese in me / sono nessuno, o sono una nazione…”, scriveva a proposito di un personaggio in La Goletta Flight, ma c’è da giurarsi che fosse una descrizione almeno in parte anche autobiografica e a dare un’occhiata a una qualsiasi sua foto non si sbaglia: pelle abbronzata, lineamenti decisi, occhi verdi intensi come la notte che lo fece conoscere al grande pubblico (In a green night, 1962).

È uno dei pochi poeti, Walcott, ad aver vinto il Premio Nobel per la letteratura nella seconda metà del XX secolo, quando la scrittura in versi si dava già per morta e il mondo accettava di “sporcarsi le mani” solo con l’inchiostro della prosa, eppure fu quel suo magnificare le periferie del mondo – che altro potrebbero essere, seppure paradisiache, infatti, le Antille minori? – ora con realismo, ora con speranza, là dove la vita e la morte e tutti gli altri temi cari alla poesia si personificano rendendo ogni luogo in fondo simile agli altri, a incantare l’Accademia di Svezia. Era il 1992, solo vent’anni fa: appena il tempo di girarsi indietro, per noi, ma un cammino lunghissimo per un luogo affetto da nomadismo perenne, in cui gli abitanti si sentono un po’ africani, un po’ nativi americani, un po’ colonizzatori europei.

Walcott sentiva dentro di sé tutte queste pressioni, aveva dato loro delle forme, tramutate poi in immagini e le immagini in parole, come solo un poeta sa fare, ripensando a Omeros (1990) in cui tratteggia un paesaggio storico e geografico capace di ricongiungere in pace presente e passato, ma anche inventando il naufrago senza storia di The castaway and other poems (1965).

Ma avere la poesia nei geni non è solo questione d’influenza territoriale: è questione, appunto, anche genetica. Il padre Warwick, al quale la piccola isola vulcanica ed ex colonia britannica che per Derek fu fonte di mille pensieri stava invece troppo stretta, abbandonò lui e il fratello gemello per inseguire un suo sogno bohèmien, costringendoli a vivere di pane e poesia, quella che la madre Alix insegnava in un college locale. Prima di avere il coraggio di accostarvisi, però, Walcott scrisse testi per la radio e pièce teatrali: Derek e Roderick, i due fratelli, insieme, fondarono il teatro Saint Lucia Art Guild, dove produsse e diresse il suo primo dramma, Henry Christophe. Ma a diciotto anni erano comunque pronte le sue prime Venticinque poesie, pubblicate a proprie spese, in cui l’amore per i classici della letteratura internazionale e l’influenza che questi avevano su di lui era ormai palpabile.

Saranno loro a dargli la forza di cercare la propria identità così frammentata tra echi e ascendenze di un passato solo idealmente idilliaco e una nuova patria da accettare e costruire, ma in più di qualche caso cederà al pregiudizio razziale e alla vendetta contro quest’ultimo, compiendo con non poca difficoltà il viaggio catartico che lo porterà a scrollare di dosso dalla sua poesia l’alimento ideologico. La commedia musicale O Babylon, del 1978, in fondo parla anche di questo: dell’attrazione esercitata dai beni materiali, in contrasto con un mai sopito desiderio di pienezza spirituale.

Non sarà immune dalla sua parola fustigatrice neppure il progresso, criticato però con una forte dose di ironia a tratti dolceamara: un occhio malinconico su una contemporaneità in cui faceva sempre più fatica, negli ultimi anni, a calarsi, preferendo sempre più lasciarsi andare alla sua fantasia visionaria e alla sua ricerca metafisica, anche se ciò non gli impedì, soltanto nel 2012, di vincere il prestigioso Premio Choice-Montale.

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

Così scriveva in Mappa del nuovo mondo, guidando il futuro cittadino verso la sua nuova patria e il lettore in una realtà neppure mai immaginata: ora, certamente, starà guidando le anime tra le stelle del cielo.

Roberta Barbi: Roberta Barbi è nata e vive a Roma da 40 anni; da qualche anno in meno assieme al marito Paolo e ai figli, ancora piccoli, Irene e Stefano. Laureata in comunicazione e giornalista professionista appassionata di cucina, fotografia e viaggi, si è ritrovata da un po’ a lavorare per i media vaticani: attualmente è autrice e conduttrice de “I Cellanti”, un programma di approfondimento sul mondo del carcere in onda su Radio Vaticana Italia. Nel tempo libero (pochissimo) si diletta a scrivere racconti e si dedica alla lettura, al canto e al cake design; sempre più raramente allo shopping, ormai rigorosamente on line.

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